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Libro d’esordio questo di Roberto Orano, trentenne mastro birraio veneto che tenta una risonanza d’accusa e di scossa, e dunque in qualche modo di liberazione a fronte di un mondo impositivo, socialmente e culturalmente alla prova di un sistema economico al risucchio di singoli e famiglie nella salvaguardia di pochi gruppi e di pochi uomini. Così ciò che da queste pagine risale è la corposità di una rabbia dapprima a implodere dentro sé, nell’amarezza di dinamiche di separazione e negazione ad annunciare della vita per lo più distrazioni e perturbanti stalli d’anima e poi nella tensione di strade, spazi, intimità di luoghi a riconoscersi e a riflettere nel medesimo angosciante e amaro sgomento il panorama di un millennio soffocato e al collasso. Non a caso, forse, il testo si va ad aprire con una immagine che tra le altre meglio può andare a descrivere tanta interrogazione, quella dei morti per mare, per migrazione, nell’assuefazione di chi dall’altra parte, la nostra, va smettendo anche di registrarselo nei nastri di un cuore sovente assopito e in sovrappeso. L’indice di Orano nell’avvertenza della introduzione rivolta a una globalizzazione divorante nelle sue unificazioni e nelle sue cancellazioni segue una riflessione come da sottolineatura che “sfuma dal materialismo anarchico a idee anticapitalistiche e rivoluzionarie”. Ciò che viene restituito in realtà in una versificazione spesso spezzata, quasi a singhiozzo, è un processo d’allarme cui l’io come accennato tende a comprimersi, a celarsi tra le pieghe di aspirazioni trattenute e non espresse se non in una dolente e a tratti paralizzante aggressività verbale, la stessa propositività negata nel segno stesso di un dettato, e di un’epoca, il più delle volte comunque subito (“Cadi piano,/ con grazia,/ nel silenzio/ dell’oblio”). A vincere allora è un odio senza misura contro i depredatori e “i distruttori della quiete”, di una impronta a seminare misconoscimenti reciproci tra gli esseri (“Tu non esisti” l’input a rompere relazionalità e sguardo, “Divide et impera”), a scavare nella testa vuoti a perdere la propria storia (“La vita, talvolta dura,/la morte, un debito”). L’amore ora altro luogo di inferno, e di inverno di dolore ora carnalità di una presenza a confermare, a rimisurare gradazioni e temperature in accensione di vita in quell’automazione dei sentimenti a premere da un potere psicologico che ha in un ordine più grande origine e controllo. Lo spiraglio in Orano che prova allora a risalire nell’accenno finale è in una riappropriata, non indotta, capacità del singolo di riprendere in mano la propria vita, in una unicità- una bellezza- che è nelle imperfezioni, nella infinita possibilità delle sue dilatazioni “perché c’è ancora una luce/ da prendere, / fino alla fine del mondo”. Da questa chiave, a proposito di luce, ci sembra poter provare a illuminare circa un dettato spesso più nel tentativo di una riflessione, nel sentimento di sé e del mondo, a darsi capacità di verso che di poesia stessa, saldamente ed efficacemente riuscita nella naturalità del suo esercizio. È infatti una scrittura non sempre forte nel potere e nella coscienza di una parola al rischio di una singolarità (che pure c’è) non espansa alla misura di effrazione che è- nell’incisività- d’ogni autentico dire poetico. Una scrittura a cui servirebbe forse maggiore cura e attenzione alle trappole delle proprie ingiunzioni, che viene certo anche dall’essere lettori prima che autori (in una regola che vale per tutti sia chiaro) e a cui a cui auguriamo anche per questo, alla forza e alla bontà delle sue urgenze, il miglior scioglimento dato.

 

 

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